Un ragazzo di 16 anni mi racconta che, come tanti ragazzi della sua età, trascorre i suoi pomeriggi scorrendo Instagram e TikTok (un nuovo social per condividere video).
“Cosa ti piace vedere?” gli domando.
“Mah, diverse cose, le foto dei miei amici, i video divertenti, i video degli incidenti…”.
“Degli incidenti?” gli chiedo?
“Si”, mi dice guardandomi come se stessi domandando qualcosa di ovvio. Poi scorre un po’ sul telefono e me lo porge, e mi mostra un video in cui un autoarticolato investe un ragazzo in motorino, e questa persona letteralmente esplode sotto il peso del mezzo. Gli ripasso il cellulare e lui riguarda il video di pochi secondi, poi alza lo sguardo, mi sorride senza troppo entusiasmo e mi dice “Hai visto?”
Mi tornano alla mente i miei 16 anni, quando sentivo mia madre commentare gli incidenti passati al telegiornale, resisteva alla notizia ma quando iniziava il servizio le immagini la turbavano, e cambiava canale, a volte commossa. Io non capivo il suo turbamento, il suo coinvolgimento che a me, adolescente, sembrava eccessivo, specialmente per qualcuno che nemmeno conosceva. Ma lei era madre, e quando a morire per strada erano soprattutto i giovani, lei tremava.
Nella notte tra Sabato e Domenica sono morti in un incidente stradale a Cerignola due ragazzi, Agostino Antonacci e Aurora Traversi, di 18 e 16 anni. Anche l’autista, molto giovane, Michele Balzano di 22 anni, e una ragazza di 14 anni, Federica Pia Albanese, sono rimasti feriti.
Cercando online articoli e post per saperne di più provavo preoccupazione, ho sentito turbamento e ho capito che vedere mia madre, preoccupata, turbata, mi aveva insegnato che quando un ragazzo muore è una cosa brutta, che ne puoi rimanere turbato, anche se non lo conosci, che puoi sentire il dolore come se accadesse a tuo figlio; e che cambiare canale significa rispettare dentro di sé il limite dopo il quale anche il dolore, anche la morte iniziano a diventare normali, a non turbare più.
I ragazzi oggi vengono esposti a questi contenuti prima ancora di imparare a scrivere con una penna, qualcuno prima di essere capace di leggere. Ricordo i miei primi studi sull’esposizione alla violenza nella radio, nella televisione, e dagli anni ‘90 ci si interroga sull’influenza dei videogiochi violenti nelle stragi come quella della Columbine High School. Poi è arrivato internet diffuso, e i social. Perché dovremmo allarmarci di più, oggi, con i social?
Le risposte sono tante, tutte molto valide, e sarebbe lungo scendere nei dettagli. Ma provo a riassumerle banalmente così: i social sono media che di per sé favoriscono l’utilizzo della parte razionale del cervello, riducendo l’utilizzo di quella emotiva. L’uso che ne facciamo oggi è eccessivo, pervasivo, i contenuti estremi sono raggiunti senza alcuna difficoltà che possa inviare un segnale d’allerta al nostro cervello, e senza nessuna cornice che ne dia un senso emotivo. Mentre un ragazzo vede un video, da solo, seduto alla sua scrivania tra una partita alla play e un compito di geometria, non c’è nessuno che resti turbato con lui, nessun volto che cambia espressione e si contrae esprimendo rammarico o dolore, dando un significato emotivo al contenuto di quel video.
Sull’incidente di Cerignola molti titoli riportavano, quasi come fosse la parte centrale della vicenda, che il conducente era stato arrestato. Davvero è la parte che ci interessa di più? Temo che per molti sia così. Alimentare solo la “parte razionale” di noi stessi, a discapito di quella emotiva, genera macchine, problem solvers che davanti alla morte di due ragazzi cercano solo un colpevole, prima ancora di piangerli.
E allora il colpevole è l’autista. Oppure sono i genitori che li hanno lasciati in giro fino a tarda ora. “I genitori di oggi non danno regole… che ci facevano quei ragazzi in giro a quell’ora?” sono tra i commenti più diffusi sotto la notizia. La razionalità epurata dell’emozione profonda e autentica crea accusatori, crea haters, crea persone che vedono problemi, meccanismi, ingranaggi, non altre persone.
Da dietro la tastiera è difficile vedere la smorfia di dolore dei genitori di quei ragazzi, che forse hanno fatto del loro meglio per proteggerli, e forse sono loro i primi ad accusarsi, magari ingiustamente, che non sia stato abbastanza. Non è facile vedere lo sguardo assente di un ragazzo di 22 anni che magari si chiede cosa avrebbe potuto fare o non fare, per evitare due morti ai quali penserà per tutto il resto della sua vita.
Ecco, io mi chiedo se ancora è possibile imparare le emozioni. Le neuroscienze ci insegnano che le emozioni si apprendono, e si apprendono guardando i genitori, guardandone il volto mentre cambia in base a cosa accade intorno a loro, e a noi mentre siamo con loro. È ancora possibile essere genitori, ed essere ragazzi, nell’epoca dei social?
Alessio Tortorella
Psicologo – Responsabile Sportello Adolescenti Foggia
Presidente Associazione “Parole Contrarie”